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Il volo dei colombi ci ha portato alle case cooperative

Sulla nostra piazza…, per condividere la sua storia, si affaccia Zahra che viene dal Marocco e abita da 10 anni in via Selo n° 2, con il marito Youssef e i loro figli Omar e Adam

Per parlare con lei, salgo i tre piani dalla scala con gradini in pietra. Questa casa è stata costruita nel 1909, il primo edificio per abitazione, dopo la sede della Cooperativa di consumo.

Mi riceve senza velo in testa, con leggings e maglietta perché sono una donna e sono attesa. Sul tavolo sono già pronti i due bicchierini decorati per degustare il tè alla menta che non tarda ad essere servito dalla tradizionale teiera Albarade, con quella maestria che sa fare cadere il getto rotondo dall’alto senza schizzi laterali, centrando perfettamente il bersaglio. A tre pareti del piccolo soggiorno si addossa una struttura a forma di U ricoperta da cuscini. Così sono le case marocchine, mi dice Zahra, perché lì le famiglie e i parenti sono tanti e vanno sempre da una casa all’altra, anche senza appuntamento. Magari dormono poi sui divani. Là c’è sempre qualcuno che bussa alla porta, famigliari e vicini. Qui le sembra strano, raramente viene qualcuno e i divani restano spesso vuoti. Il suo italiano è ben comprensibile, grazie ai corsi di lingua per stranieri. La sua prima sede è stata alla chiesa di Santa Croce, dove maestri volontari in pensione tengono corsi. Poi è arrivata anche la scuola dei figli; infatti li segue nelle evoluzioni scolastiche attraverso i loro testi, che fa propri. Quest’anno le cose si complicano perché Omar frequenta la prima media.
Zahra racconta e si svela.

Il Dono di Zahra

la ricetta di Zahara

In Italia è arrivato prima mio marito, ma non su un barcone

Youssef è in Italia da 30 anni, io da dodici anni circa. Mio marito è giunto solo, quando aveva appena 18 anni, prima prendendo il treno e poi un traghetto regolare, dato che aveva documenti ufficiali d’ingresso. Dopo il liceo ha chiesto infatti un visto turistico, ma già con l’idea di rimanere qui. Si è fermato qualche mese nel sud Italia, poi si è trasferito a Milano. Lì ci ha vissuto 16 anni, facendo il giardiniere. Un mestiere che ha imparato con un corso adeguato. Trovava però Milano una città stressante, soprattutto a causa delle lunghe distanze da percorrere. Ha trascorso allora un anno in Francia invitato da un parente, ma non ne è stato conquistato. È tornato in Italia, un amico gli ha parlato di Reggio Emilia. È venuto, gli è piaciuta e si è fermato. Era il 2004.

Una domanda di matrimonio alla moda araba

Conosco Youssef fin da bambina, infatti è anche un po’ mio parente. L’avevo perso di vista, ma sapevo che viveva in Italia. A un certo punto la madre di Youssef, che io chiamo zia, mi telefona in ufficio a Casablanca, dove facevo un lavoro grafico per un’azienda, e mi invita ad andare a trovarla.

In Marocco c’è una tradizione: è la madre del ragazzo che si ‘preoccupa’ di cercargli moglie. Mi ha proposto di sposare il figlio. Le ho detto di no. Non che lui non mi piacesse, ma pensavo che la mamma stesse forzando la situazione su di lui e poi io, che ero laureata in letteratura inglese, sognavo di andare in Canada. Anche mio fratello mi incoraggiava in questo senso e mio padre – mia madre l’ho persa che ero bambina – fin da piccola voleva che studiassi. Ha sempre sostenuto l’istruzione per tutti i figli: tre femmine e due maschi. Quando ho riferito a mio padre la conversazione con la zia, ha commentato che non mi avrebbe detto nulla in un senso o nell’altro, perché si trattava della mia vita. Invece la zia si è arrabbiata molto.

Dopo due anni, era il marzo del 2000, ci siamo incontrate di nuovo alla festa di matrimonio di mia sorella. In quell’occasione c’era tutto il parentado, compreso Youssef che era venuto di proposito dall’Italia. Il matrimonio si teneva di sabato e tutta la famiglia ha discusso della domanda di matrimonio che avevo respinto. Il lunedì sono andata a lavorare e la sera, al mio rientro, li ho trovati tutti radunati in casa a chiedermi il perché del rifiuto, visto che Youssef era pure un bel ragazzo. In una settimana mi hanno convinto, anche perché lui mi piaceva davvero ed era un bravo ragazzo. Mio padre no, non mi ha mai detto nulla, se non che ero io che dovevo scegliere. Non mi ha convinto la pressione di tutti quanti, poiché sapevo già com’era lui. Il fatto è che prima credevo che avesse una ragazza e, in ogni caso, non ritenevo che dovesse essere sua madre a decidere per lui. Invece mi hanno riferito che era proprio lui che voleva sposarmi.

Allora gli ho detto sì, ma ho subito messo in chiaro che non avrei lasciato il mio lavoro per andare in Italia con lui. Ci siamo sposati nel luglio dello stesso anno. Lui è tornato in Italia e mi ha lasciato lì con il mio lavoro, come gli avevo chiesto.

Il lutto delle gravidanze

 Ci vedevamo quattro o cinque settimane all’anno, per il suo periodo di ferie, quando tornava in Marocco. Durante quelle vacanze facevamo anche dei viaggi, però era dura. Sono rimasta incinta due volte e per due volte i miei tre bambini non sono sopravvissuti. Lì il servizio sanitario non è buono. Se non hai i soldi… ma anche se li hai e vai in una clinica privata … la cosa importante per loro è il denaro e non l’umanità. Negoziano con te il prezzo prima di farti entrare. Questo succede in tutto il terzo mondo. Il Marocco è un bellissimo Paese, però è governato da ladri.  C’è un grande divario fra ricchi e poveri. Mio padre lavorava negli impianti petroliferi italiani, era un buon lavoro e non ci mancava nulla.

Nella mia prima gravidanza, ricordo molto bene quando è arrivato il momento di andare a fare il controllo al sesto mese. Youssef era in Italia e sono andata ad incontrare il medico dopo il lavoro. Mi ha fatto la visita e poi l’ecografia e mi ha comunicato che il cuore del piccolo non batteva più. Avevo il mio bambino morto dentro di me da più di 10 giorni! Erano le 19.30 e come in trance mi sono avviata verso la fermata dell’autobus; poi sono rimasta lì a piangere e piangere. Una signora di passaggio si è fermata con me. Poi un’amica mi ha chiamata, con il marito è venuta in auto a prendermi e mi ha portato a casa. Il mattino seguente, molto presto, mio papà e gli suoceri mi hanno trasportato nell’ospedale privato della mia città natale, Mohammadia.

Sono rimasta ricoverata quattro giorni, durante i quali mi hanno fatto gli esami; sembra che il problema fosse nato dalla mia pressione alta. Poi mi hanno provocato le contrazioni, come richiesto da mio padre, per farlo uscire. Era il 14 gennaio 2002, lo avrei chiamato Zakaria e ora avrebbe 18 anni. Ho pianto tanto.

Poi sono rimasta di nuovo incinta; ho fatto spessissimo controlli, visite, ecografie. A sei mesi la pressione era di nuovo salita e mi hanno ricoverato in un ospedale privato. Dentro di me c’erano due gemelli e la dottoressa mi diceva che avremmo cercato di portare avanti la gravidanza per un altro mese, quindi sarei andata all’ospedale pubblico a partorire. I miei bambini poi avrebbero avuto bisogno dell’incubatrice della clinica e avrei già dovuto versare i soldi per questo scopo. Sono rimasta lì un mese. Pagavo il corrispondente di 150 euro al giorno. Io all’epoca guadagnavo circa 500 euro; mi hanno aiutato Youssef, mio padre e mio suocero. Poi mi sono ammalata di acidemia e hanno dovuto fare un parto cesareo d’urgenza. Era la 33esima settimana di gravidanza. Ho partorito alle 10.30 del mattino; un bambino pesava 2 kg e 100 e l’altro 1 kg e 800. Ho dato loro i nomi di Hamza e Yassine. Li hanno vestiti, ma loro soffrivano per la mancanza di ossigeno! Sono morti. Subito dopo il parto, mio fratello aveva disperatamente cercato incubatrici in altri ospedali, ma solo alle 16 un bambino è potuto entrare e l’altro alle 18. Il più grande ha vissuto due ore, l’altro 15 giorni. Il fatto è che li hanno lasciati senza ossigeno. Hanno detto che non c’era posto. Quando il primo è morto io l’ho sentito, l’ho sentito! Nessuno me lo diceva, ma io lo sapevo! E qualcosa dentro di me mi diceva che sarebbe successo anche all’altro. Quando sono uscita dall’ospedale, sono andata a vederlo in quell’incubatrice: era così piccolo, così piccolo… Ho avuto tanto dolore. Poi ho preso farmaci per dimenticare, per dormire e basta. Sono tornata al lavoro appena mi è guarito il taglio, quindi ho detto a me stessa ‘basta bambini’. Così ho iniziato a prendere la pillola.

Perché sono venuta e rimasta in Italia

Una mia cara amica d’infanzia – ho sempre pensieri buoni verso di lei – a un certo punto mi ha fatto prendere coscienza della mia situazione. Ricordo ancora le sue parole: “Non è una vita la tua, sei qui da sola, in questo stato e tuo marito è lontano”. Mi ha suggerito di fare un visto per venire in Europa, visitare il Belgio, la Francia, l’Italia, “Prova, mi diceva, se ti piace rimani”. Ricordo bene di avere chiesto il visto nel maggio del 2007 e che mi hanno concesso sei mesi. Prima sono andata a Parigi, che bella! Poi sono venuta a Reggio. La differenza era deprimente. Youssef in quell’epoca abitava a Baragalla. Ho pianto molto, ero sempre da sola e non conoscevo la lingua; non sapevo proprio se sarei rimasta. Youssef mi ha pregato di fermarmi un po’ con lui prima che scadesse il visto; “Se ti piacerà, mi diceva, invierai poi il licenziamento al tuo datore di lavoro”. Sono arrivata a luglio e a settembre ero incinta. Allora mio marito mi ha detto: “Adesso non vai da nessuna parte”. Lui pensava anche che qui sarei stata curata meglio.

Non dimenticherò mai cosa è successo di bello a Reggio

Ed è stato proprio così. Sono andata in ospedale al Santa Maria Nuova e ho spiegato tutto tutto quello che era successo prima. L’ho detto in inglese e francese, perché non conoscevo quasi nulla d’italiano. Mi hanno davvero aiutata. Non dimenticherò mai cosa è successo qui, grazie a Dio, ma anche a loro. Mi hanno seguito molto da vicino e non mi è mai salita la pressione.

Quando è nato Omar, che contentezza! Mi hanno fatto il taglio cesareo con anestesia locale e mi hanno appoggiato il bambino appena nato sulla guancia e io ho pianto, pianto; anche il suo papà ha pianto, pianto. Omar è nato nel 2008 e poi Adam nel 2010. Loro si sentono totalmente italiani.

Io faccio la casalinga e mi sono abituata piano piano a questa vita reggiana. Ciò che più mi ha aiutato, è stata la possibilità di parlare. Quando capisci quello che ti viene detto e puoi rispondere, ti senti in comunicazione, non sei più isolata. Poi ho tante cose da fare con i miei figli: li porto a scuola, li vado a prendere, li accompagno alle attività sportive, dal pediatra… e così passa il giorno.

In questo quartiere le persone sono molto gentili. Quando abitavo ancora a Baragalla, una volta che ero alla fermata dell’autobus – perché mi sono sempre mossa per fare la spesa, pagare le bollette, fare le tante commissioni, mi piace sbrigare le cose da sola, non aspetto mio marito – un uomo con l’auto si è fermato e mi ha insultato perché avevo il velo e per urlarmi di tornare al mio Paese. È una cosa che mi fa male, sempre, sempre. Ci sono persone un po’ razziste, ma ce ne sono tante altre che ti fanno dimenticare questi episodi. Anche nel mio Paese succedono vicende di razzismo, le persone non sono tutte uguali.

 

Il velo e l’Islam

Nessuno mi ha chiesto di mettermi il velo, né mio papà, né mio marito. Nell’Islam ci sono tanti precetti che dobbiamo seguire: prima devi credere che c’è un Dio, poi il suo messaggero che è il profeta Maometto; quindi c’è la preghiera, il Ramadam, il pellegrinaggio alla Mecca e aiutare le persone povere. Poi noi diciamo che la donna è come una perla e questa perla devi coprirla, devi mostrarla solo alle persone molto vicine. Le cose belle delle donne devono essere protette, non essere viste dagli estranei. Chi decide di portare il burka invece, è come una persona religiosa molto integralista, ma dipende anche dal contesto ambientale. Quando facciamo le preghiere ci copriamo e ci mettiamo anche un abito lungo. Non è obbligatorio per le bambine. La mia libera scelta è avvenuta quando mi è morto il figlio nella pancia. Portare un bambino morto dentro per dieci giorni… penso che Dio mi abbia salvata. Quindi mi sono detta che avrei fatto ora la cosa che avrei sempre dovuto fare. Ancora ricoverata all’ospedale, ho chiesto a mia sorella di portarmi un velo e vestiti un po’ larghi e lunghi. Per me è stato una specie di ringraziamento. Ora sono 18 anni che lo indosso e mi sento bene così. Qui le persone d’estate mi dicono: “Ma perché lo porti? Fa caldo…”. Io rispondo che sento lo stesso caldo, ma che sono più all’ombra.

La violenza e l’Islam

Nell’Islam c’è scritto che non si deve fare male a nessuno, nemmeno a un animale e certo non agli altri esseri umani, anche se non sono mussulmani. Quelli che fanno del male, non sanno nulla dell’Islam. I radicalismi, le violenze sono nati dalle guerre, dal desiderio di potere, ma non hanno niente a che vedere con questa religione. Nel Corano c’è un verso in cui si dice che se tu uccidi un uomo è come uccidere tutti gli uomini del mondo, se fai male a qualcuno è come averlo fatta a tutto il mondo. L’Islam è cosa buona e devi semplicemente amarlo per seguirlo.

Il volo dei colombi

 Siamo venuti a vivere in questa casa cooperativa, grazie alla passione di Youssef per i colombi. Lui quando va in giro per Reggio in bicicletta, osserva sempre il cielo per intercettare il loro volo. Una volta ha visto una grande formazione che si dirigeva verso la zona sud-est della città. Ha pensato che lì ci fosse qualcosa di particolare per attirarla. L’ha seguita e così ha scoperto la sede reggiana della Federazione colombofila italiana. È entrato, li ha frequentati, ha fatto amicizie. C’era un socio che aveva un amico che abitava in queste case. Così gli ha suggerito di fare domanda per l’assegnazione di un alloggio. Dopo circa due anni è arrivato. Siamo venuti ad abitarvi nel gennaio 2010. Io ero molto contenta. L’appartamento ora è un po’ piccolo, visto che i figli stanno crescendo, e stiamo cercando un cambio.

Siamo stati fortunati con i vicini. Parliamo e non abbiamo mai avuto nessun problema. Poi con la famiglia di Gianni, che abita nell’appartamento di fronte a noi, ci scambiamo cose, piatti cucinati. Mi sento in amicizia soprattutto con Tiziana, Mafalda, Giaroni, Gaetano. Ma qui sono tutti gentili.

Il senso della comunità allargata

Quando sono venuta ad abitare qui, non sapevo nulla delle Case cooperative e della loro storia particolare. È una cosa bella. Poi qui si paga un affitto inferiore e nessuno ti butta fuori casa.

Ho capito questa tradizione di comunità che c’è qui. E ora, rispetto agli stranieri, è necessario integrarli, non sentire che sono diversi da te. In quanto a me, devo rispettare queste persone. Per me è importante il rispetto. È necessario sapere che siamo tutti uguali, anche se siamo stranieri, bianchi o neri, cristiani o mussulmani. Così ci si può unire. Perché altrimenti, per come si sono messe le cose nel mondo, ciascuno può sentirsi straniero anche nel proprio Paese.

Quando andiamo in Marocco per le settimane di ferie, dopo un po’ mi manca la mia casa e non vedo l’ora di tornare. Lo stesso dicasi per i miei figli. Con loro poi è difficile trovare là gli alimenti. Vogliono solo pastasciutta alla bolognese, al pesto, lasagne, pizza, erbazzone. Ora è così che cucino. Quando mi manca il cibo arabo, preparo qualche piatto soprattutto per me e mio marito. Di fatto, del Marocco sento la mancanza solo della mia famiglia. Per il resto qui mi sento a casa.