RADICATO IN EMILIA
Anche se germogliato a Casablanca
“Mi sento come Sèimper stê ché”, mi confessa in perfetto dialetto reggiano Youness Nazli, mentre siamo seduti nella saletta comunitaria di via Selo. Il fatto è che qui, in Italia, è arrivato tra i quattro e cinque anni di età. In uno dei suoi pochi viaggi in Marocco, l’ultima volta che è stato a Casablanca, dov’è nato 35 anni fa, di anni ne aveva 31. La metropoli magrebina – affacciata sul possente Oceano atlantico, con più di 3milioni di abitanti, con la moschea di Hassan e il suo minareto alto oltre 200 metri, e poi la vecchia medina, con le stradine strette e tortuose e il muro di cinta che la separa dalla città moderna – resta sfocata sul fondale della sua memoria. In primo piano Youness (che vuol dire Giona, come il profeta inghiottito dalla balena) trova vivido il paesaggio della pianura padana che lo accompagna da sempre, a partire da un’infanzia e un’adolescenza difficili. È questo panorama lineare che ha avuto bisogno di graffiare per urlare al mondo la sua esistenza, mentre cresceva stretto fra due culture; è in questo scenario che ha rintracciato le ragioni e le opportunità per il proprio riscatto. Ecco il suo racconto.
Il ‘dono’ di Youness
Due rive senza ponte
I miei genitori sono arrivati in Italia – prima tappa Parma, poi Scandiano e infine Reggio Emilia, con in mezzo vari piccoli cambi – che erano già adulti e sposati. Certamente avevano l’aspettativa di instillare nella loro discendenza la cultura madre, fatta di tradizioni, religione, lingua, modi di pensare e di fare. Quando sono partiti dal Marocco, per cercare migliori condizioni di vita, non avevano certo messo in conto di vedere interrotta quella linea culturale, vecchia di secoli. Un’eredità che è percepita in profondità ed è fatta di viscere, prima ancora che di testa.
Quando le mie due sorelle ed io eravamo piccoli, ci portavano alla moschea, soprattutto in occasioni festive speciali e la domenica, ma non ricordo nessuna pressione particolare. Odiavo invece andare alla scuola araba, che mi avevano costretto a frequentare, anche se per poco tempo. Oggi, viceversa, li ringrazio perché, pure se la mia conoscenza della lingua è elementare, mi dà la possibilità di approcciare un’altra cultura, che è sempre un arricchimento.
È quello che mi dicevano gli altri quando ero un ragazzo: “Dai, è bello perché tu puoi prendere di qua e di là”, come se fossi arricchito da entrambi i fronti; invece mi sentivo schiacciato fra le due sponde. A dire il vero, il conflitto era alimentato fuori da me perché, per quello che mi riguardava, andavo un po’ in automatico. C’erano come due bottoni: in casa veniva spontaneamente premuto quello arabo e fuori quello italiano.
Oggi sono fiero delle mie origini ma, parliamoci chiaro, mi sento profondamente italiano per adozione, tradizione e cultura. Forse, anche perché non ho mai girato con compagnie di ragazzi marocchini o extracomunitari, ma solo di coetanei italiani. Ho infatti potuto osservare che ragazzi marocchini, anche di generazioni successive alla mia, magari pure nati in Italia, che però hanno frequentato soprattutto ragazzi della stessa origine, o altri figli di migranti, hanno mantenuto maggiormente la loro tradizione, che è diventata come una forma di protezione e di forza. Parlare marocchino, quando sei in mezzo a italiani, funziona come un codice esclusivo ed escludente, che ti rende speciale. Io ho saltato quel passaggio, forse perché mi trovavo più a mio agio con attitudini e pensieri all’italiana.
Un teppistello di periferia
La mia infanzia e la mia adolescenza sono state complicate, per usare un eufemismo. Per via degli sfratti esecutivi, abbiamo dovuto cambiare casa un sacco di volte. Inoltre, papà era spesso senza lavoro, con problemi legali e di documenti. C’era mia madre a reggere questa situazione disastrosa, questo carico da matti che tutta la famiglia le portava.
Quando ancora abitavamo a Scandiano, in una situazione quasi bucolica, mi sono accorto relativamente di questa famiglia problematica; anche perché, per un bambino è normale tutto ciò che gli capita, è quella la sua vita. Così, fino alla terza media, sono stato un ragazzino tutto sommato bravo e tranquillo. Diverso è stato quando, finalmente, ci hanno assegnato una casa pubblica a Reggio, zona Foscato. Lì tutto è esploso. Sono diventato un pazzo scatenato totale, un fastidioso teppistello, un mezzo delinquente di periferia.
La classica situazione che si viene a creare in certi tipi di case popolari, dove gli appartamenti vengono assegnati attraverso graduatorie, in cui si hanno maggiori punteggi, quindi più diritti, quanto più la condizione familiare è pesante. È facile che si crei così un’esplosiva polveriera, soprattutto per i figli di quelle famiglie. Ragazzi che si danno man forte con alle spalle padri ladri, contrabbandieri o peggio, che sono in galera o comunque con conti aperti con la legge. Si uniscono, non per uscire da quella situazione, come a volte viene romanticamente raccontato da certi film, ma per scavarsi la fossa a vicenda. Credo che i politici e gli urbanisti dovrebbero tenere conto di questa possibilità.
Segni come ferite
La scelta della scuola superiore è caduta su un tecnico commerciale. Mio padre mi aveva detto di scegliere il commercio, per gli arabi è importante, poiché è anche un’indicazione del Profeta. Però a me non interessava per niente e quella scuola mi è scivolata addosso senza lasciare alcuna traccia.
A 14 anni la mia ribellione è iniziata con i graffiti sui muri. Uscivo di notte, armato di bombolette spray e pennarelli. La polizia mi ha beccato varie volte e mi ha portato in questura; poi la solita trafila fatta di denuncia e telefonata ai genitori. Io però ci riprovavo sempre. In quei primi anni disegnavo solo lettere sui muri. Detto così si minimizza il tema perché, dietro ogni sottocultura, come dietro ogni arte, c’è un universo da analizzare. Comunque, per me quei segni erano ferite che imprimevo, erano urla che emettevo per costringere il mondo ad accorgersi della mia esistenza. Quello è stato il seme. Sono andato avanti a fare il writer duro e puro, solo con le lettere, fino alla nascita di mio figlio. Da quel momento in poi, il mio orizzonte artistico si è allargato parecchio, grazie anche alla dedizione nello studio della materia su cui poi ho investito buona parte degli anni successivi, fino a farne un lavoro complesso, sfaccettato e in continuo mutamento.
Quando l’arte trasforma la rabbia
In famiglia l’arte, o la cultura in generale, non l’ho mai sentita nominare. In casa non si trovavano libri o giornali, se non il Corano e il periodico gratuito il “Re degli affari” per cercare occasioni di acquisto a poco prezzo. C’è però in me un ricordo di quando ero bambino: un giorno mio padre mi ha portato un cavalletto, una tavolozza, tempere e pennelli. Doveva avere osservato quanto mi piacesse ricopiare i personaggi della Disney, o magari poteva anche essersi ricordato di quando si andava al supermercato tutti insieme e dove, per il tempo della spesa, mi lasciavano in quei gruppi protetti con baby sitting.
Lì ti venivano dati fogli e colori; intorno ai miei disegni si formavano poi capannelli di genitori stupiti. Quello di mio padre è stato però un dono così, come un flash, non che abbia visto in me delle potenzialità che avrebbero poi dovuto essere coltivate.
L’approfondimento è avvenuto, ricercato da me, in età adulta. Lì mi sono veramente messo a studiare e a sperimentare. Ho indagato anche altri miei interessi come l’antropologia, che mi affascina molto, la storia dell’arte e la storia del Novecento italiano, che mi piace tantissimo.
Non ho mai avuto nessuna guida, nessun tutor, solo la passione mi ha condotto ad immergermi in questo o quel filone di studio.
Il cambiamento radicale
Ho conosciuto mia moglie Anita sui banchi dell’Istituto commerciale, avevamo 14 e 15 anni. Ci siamo presi e mollati svariate volte. Però l’amore è rimasto, così, intorno ai 21 anni, ci siamo rimessi definitivamente insieme. Lei è stata ed è un pilastro fondamentale della mia vita.
È una donna con un grande senso di responsabilità, che non si è mai fatta problemi a darsi e a sacrificare il suo tempo per la famiglia. Una donna solare, amata e di ottima compagnia, quanto cazzuta quando serve, una fiera leonessa. Nell’ultimo anno ha deciso di cambiare lavoro e credo che possa così avere il modo di esplorare di più le sue inclinazioni, perché se lo merita. Quello che provo per lei è amore misto alla gratitudine e al rispetto profondo che ho per la sua persona. Fra noi c’è un rapporto che va oltre le parole. Se oggi sono l’individuo che sono, una grossa fetta del merito va a lei, che ha saputo scorgere in me delle qualità, là dove tutti vedevano solo un ragazzo destinato al perpetuo disastro.
La stabilità affettiva conquistata con Anita, poco più che ventenni, ha creato le fondamenta per il mio cambiamento radicale di vita, che è culminato con la venuta al mondo di nostro figlio Elyas, che ora ha ormai 12 anni. Anzi, già con l’annunciazione del suo arrivo. Fino a lì la mia esistenza era stata da sbandato, uno senza fissa dimora, vizioso e pure senza documenti, un clandestino insomma, anche se ero sempre stato in Italia. Quella nascita è stata per me uno spartiacque o, per meglio dire, un miracolo.
Mentre vedevo la pancia di Anita aumentare, mi sono detto: “Cazzo, Youness, ora non si scherza più, adesso devi assolutamente cominciare a costruire qualcosa”.
Così sono cresciuto con mio figlio, dedicandogli tutte le mie energie. Era come se, mentre prendevo fra le mie, la manina del bambino, in realtà conducessi anche il piccolo Youness ad esplorare il mondo in una maniera differente, attraverso una guida attenta e premurosa. Volendo educare Elyas, ho educato me stesso. Il che, in fondo, è perfetto perché, non bisogna dimenticare che l’unico vero dono di un genitore a un figlio è il suo esempio.
Ora Elyas sta approcciando la prima adolescenza, quindi comincia a prendere le sue direzioni, poi gli amici e il gruppo stanno diventando importanti. Tuttavia, se lo guardo in questo punto del suo percorso, mi accorgo che continua ad esprime tratti come la gentilezza e la bontà d’animo, che sa chiedere e ringraziare. Ne sono contento, anche se, oggigiorno, sembri un deficiente se dici buongiorno e buonasera e domandi con garbo. Poi trovo che manifesti curiosità sul mondo, anche solo come l’uscire di casa ogni giorno e meravigliarsi di ciò che lo circonda; a volte basta fermarsi per osservare una nuvola e vedere come cambia la sua forma.
La chiave del Riscatto
In fondo i temi a me cari, quelli che ho voluto trasmettere a Elyas, sono gli stessi con i quali cerco di contagiare anche i ragazzini nella mia attività di educatore. Spesso mi interfaccio con giovanissimi in difficoltà, che vengono da quartieri popolari.
Loro si trovano davanti un insegnante che non è appena uscito dall’Università, che non ha studiato su mille testi di psicologia, ma che conosce sulla propria pelle quel disagio. E che ha trovato la chiave del proprio riscatto. I ragazzi questa cosa l’annusano e sentono che possono essere capiti. Sono uno di loro, che non è diventato qualcuno girando con la Lamborghini o il Bmw, ma che si è realizzato facendo quello che gli piace, attraverso la curiosità, la ricerca e l’impegno.
In questo modo si può spalancare davanti ai loro occhi un mondo, si può fare breccia sulla possibilità di credere in se stessi e di darsi il permesso per aspirare a qualcosa che prima veniva percepito forse solo come un vagheggiare. Possono così trovare delle risposte individuali ai propri sogni, puntare in alto e uscire dallo schema preconfezionato dello storytelling popolare – alimentato da canzoni, film e letteratura – che limita e rinchiude i desideri dei ragazzini e delle ragazzine delle classi meno abbienti: il calciatore, il rapper, il lottatore di mma, l’ìnfluencer o la showgirl.
Mi piacerebbe che i bambini e gli adolescenti dei quartieri popolari avessero a disposizione gli stessi input e poi le stesse possibilità delle famiglie più agiate; che, per esempio, potessero dire di volere studiare bioingegneria, magari per potere trovare un batterio che fa fuori tutta la plastica che abbiamo scaricato negli oceani; oppure diventare designer, fisici, intellettuali. Tra le mura delle famiglie meno fortunate è spesso nascosto un potenziale, mai del tutto esplorato.
Per me, fra i doni più grandi che possiamo avere, ci sono la curiosità, la fame di sapere e il percepire la pienezza della propria vita. L’ho provato durante la chiusura per il Covid, che è stata un po’ una prova per tutti. Lì, costretti a stare in casa, ciascuno ha dovuto guardarsi in faccia; lì ognuno ha potuto capire se la sua vita era piena o vuota. Se il proprio tempo era stato riempito solo dal lavoro e dall’andare fuori avanti e indietro, senza avere contemporaneamente coltivato nessun interesse. Allora, chiusi in casa, restavano solo la tv, il telefonino e la noia. A me quella limitazione ha portato invece esperienze così intense, che arrivavo alla fine della giornata con la voglia di avere altre ore, perché c’erano ancora mille cose che mi sarebbe piaciuto fare. In quel periodo, fra l’altro, ho seguito corsi on-line per raffinare tecniche che stavo già studiando, come l’animazione per esempio, o per conoscerne di completamente nuove, tipo la modellazione 3D.
Abitare qui è un ònere e un onóre
Il mio primo legame con le case cooperative di Mancasale è avvenuto tramite il lavoro. Mi è stato commissionato, a suo tempo, un murales per la casa di via Bligny. Conosciuti i principi di questa realtà cooperativa, mi sono subito affezionato. Con gli anni si è liberato un appartamento, ed eccoci ad abitare qui da quattro anni.
Mi è piaciuta l’idea di vivere in un contesto di case cooperative, per le possibilità in più che ti vengono date.
Per esempio, mettiamo che mi salti in mente di creare in un angolo del quartiere un piccolo scaffale dove potersi scambiare i libri; allora ne parlo con la presidente e gli architetti della cooperativa; se concordano, la progettiamo e la realizziamo. O magari si pensa a un’iniziativa per la popolazione più anziana che vive qui.
In questi spazi ho tenuto dei laboratori creativi per i bambini e l’anno scorso abbiamo sperimentato addirittura un campo estivo di una settimana. Ho anche contribuito a realizzare la festa del 25 aprile, che è molto sentita in questo luogo. Diciamo che ho messo le mie competenze artistiche ed educative a disposizione.
Qui esiste uno spazio del possibile dove, non solo abiti il tuo appartamento, ma anche il contesto che ti circonda e che condividi con gli altri. C’è la possibilità di creare; se c’è un problema, lo puoi affrontare, non sei abbandonato a te stesso, ti senti perciò con le spalle coperte.
Per come vivo io l’abitare questo luogo, sento l’ònere e l’onóre di condividere questo spazio e non solo di starmene fra le pareti di casa mia. Mi percepisco parte di questo tutto.