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Creare organizzazioni di auto sostegno

L’idea originaria che ha fatto nascere “al cà operaj” sarebbe attuale anche oggi. Non si può attendere solo l’appoggio delle istituzioni pubbliche. E occorre stimolare una cultura diversa dell’abitare. Parla Bruno Cavalchi, presidente della Cooperativa Case Popolari dal 1973 al 1980

Il ‘dono’ di Bruno è l’espressione di una riconoscenza speciale per ciò che l’esperienza, all’interno della Cooperativa Case Popolari, gli ha permesso di vedere.

“Ho frequentato fin da piccolo “la Còperativa” e, nel corso degli anni, ho trovato molti amici, sviluppato il mio interesse per l’attività sportiva, iniziato le prime esperienze in campo politico. Ma solo quando sono diventato Presidente ho capito che mi trovavo immerso in una realtà costruita, con il sudore e la fatica, da donne e uomini veri, consapevoli della loro condizione sociale, ma sempre guidati dai valori dell’onestà e della lealtà. Ho capito cosa significa essere parte di una comunità coesa e solidale, che possiede gli anticorpi per dare spazio, quando occorre, alle nuove generazioni. “

Bruno

– Sono passati 40 anni da quando hai smesso di fare il presidente della Cooperativa, ma bazzichi ancora intorno a questi luoghi, perché?

Sono socio sostenitore da allora. Ho continuato a mettere qui i miei risparmi per un legame affettivo. Sono infatti molto affezionato a questo posto. Quaranta anni fa era normale riporre le proprie economie nella cooperativa, perché era una delle prime iniziative create per risollevarne le sorti, poiché era decisamente in declino. L’altra proposta è stata quella di aprire la possibilità all’iscrizione di nuovi soci. Quando sono diventato presidente era il 1973 e occorreva agire e agire in fretta.

– Come vi siete mossi?

Io non abitavo qui, ma nei paraggi, tanto che frequentavo sempre quest’area dove avevo vari amici, giovani politicizzati che gravitavano intorno al Partito comunista, a cui interessavano le sorti di questa Cooperativa, fondata nel 1908 da socialisti ispirati dalle idee di emancipazione sociale di Camillo Prampolini. La sezione locale del Pci, preoccupata per la situazione, spinse alcuni di noi a diventare soci, fra cui Gaetano Borciani che abitava e abita qui e anche qualcuno di esterno. L’obiettivo era quello di promuovere un forte rinnovamento di questa storica organizzazione, che aveva resistito all’avvento del fascismo. Poi in tre siamo riusciti ad entrare nel Consiglio. Ricordo che il presidente di allora faceva l’idraulico, giusto nominato anche per potere eventualmente aggiustare i rubinetti, e prendeva i suoi appunti su una scatola di fiammiferi. Fra noi giovani – io avevo 30 anni – pur essendo inferiori di numero, abbiamo fatto un’azione concertata per mettere in minoranza il presidente e poi sostituirlo; con una elezione regolare, s’intende.

– Perché non hai mai abitato qui?

All’inizio potevo permettermi di pagare un affitto a libero mercato e così lasciare il posto a chi ne aveva bisogno; poi ho ereditato la casa di mio padre.

– Quindi avete messo in piedi le azioni più urgenti…

Tramite le nostre conoscenze, abbiamo fatto in modo di aumentare il numero dei soci, aprendo anche al loro risparmio. Poi ci siamo messi alla ricerca di soldi per costruire. Proprio in quel momento la fortuna ci ha assistito: grazie a una conoscenza che avevamo in Regione, abbiamo saputo di una legge regionale che dava contributi a fondo perduto per l’edilizia, anche quella popolare. Abbiamo allora elaborato un progetto e lo abbiamo velocemente presentato. Ci sono arrivati così 115 milioni di lire nell’arco di 10 anni, per la durata dei lavori. Il che ci ha permesso di ottenere un mutuo con cui abbiamo costruito ‘Il Cremlino’, la casa in via Selo 4, il primo nuovo fabbricato dopo le tre case degli Anni 20 e quella gialla del 1960/62. I molti risparmi che erano arrivati, più i soldi regionali ci hanno permesso di costruire il nuovo edificio e di risanare tutto il resto.

– Gli Anni 70 erano comunque tempi complessivamente di grande fermento…

Il periodo ha aiutato certamente e noi eravamo perfettamente in simbiosi con quella effervescenza. Abbiamo cercato di attivare ogni processo di partecipazione possibile per fare votare tutti i soci. Facevamo assemblee ed elezioni come si deve. Nel frattempo, in questo clima di rinascita, Gianni Giaroni – che era stato insieme all’UISP provinciale uno dei promotori della fondazione della Polisportiva Galileo, nata proprio nei luoghi e con lo spirito delle Case cooperative – ha avuto l’idea di creare un circolo Arci, là dove c’era un magazzino del vino della Cooperativa di consumo, oggi sede della sezione Pd. Il circolo è stato volano di tantissime iniziative.  In tre anni si è costruita anche la palestra, raccogliendo fondi da vari soggetti. La Cooperativa, negli anni successivi della presidenza di Gaetano Borciani, si è poi allargata acquistando, e così recuperando, il significativo edificio dell’ex Circolo Pistelli e un’altra casa da una famiglia che si era estinta.  In contemporanea io facevo anche il presidente della Galileo. Ricordo quelle lunghe, estenuanti riunioni del Consiglio della Cooperativa in un bugigattolo buio e freddo, con solo una piccola stufa a legna; inoltre avevo la mia attività professionale. È stato un periodo entusiasmante, ma molto impegnativo. Così nel 1980 me ne sono andato ed è subentrato il mio vice, Gaetano Borciani che è rimasto presidente per quasi 40 anni.

Per quale ragione in un territorio come quello di Reggio Emilia, a vocazione fortemente cooperativa, le case a proprietà indivisa non sono mai andate oltre quelle di Mancasale e Coviolo?

A Reggio, a cominciare dagli Anni 60 e poi 70, inizia ad arrivare un po’ di benessere, cresce quindi la domanda di abitazioni. Anche negli ambienti di sinistra c’è gente che ha disponibilità economica e vuole la casa. Di proprietà. Si sviluppa così fortemente la cooperazione di abitazioni a proprietà divisa che costruisce in varie parti della città. Quando si andava in Federcoop alle riunioni sulla cooperazione di abitazione, c’era sempre questo scontro, si fa per dire. In ogni caso noi, quelli della proprietà indivisa, eravamo considerati i parenti poveri. Loro maneggiavano molti soldi, quindi offrivano lavoro alle imprese, erano potenti; noi eravamo ben poco a confronto. Quindi c’erano due visioni che si contrapponevano: la nostra era indirizzata alle persone che avevano meno, mentre là c’era già una struttura di tipo aziendale. Di fatto, fra i reggiani, cresceva maggiormente il desiderio di avere una casa in proprietà, tipo la villetta a schiera.

– In Italia la proprietà indivisa è un’esperienza diffusa?

Sono ben poche le costruzioni di Case cooperative di questo tipo a Reggio Emilia, quattro o cinque in tutto. A Bologna e a Milano, però, ci sono grandi complessi. Quello milanese del Niguarda avrà 3000 alloggi.

– Oggi che significato hanno queste case?

L’offerta di case come quelle di Mancasale e Coviolo funzionano finché c’è uno strato di popolazione che non può permettersi abitazioni a prezzi di mercato. Mi diceva Gaetano che nel tempo le richieste si erano assottigliate, c’erano meno domande quando facevi un concorso. Ora la crisi ha cambiato le cose. Per molti anni però, tanti giovani dopo il matrimonio sono andati a vivere in un alloggio acquistato dai genitori.

 – Quindi la crisi ha riportato in auge questo sistema di abitare?

Oggi abbiamo ancora strati di popolazione che hanno bisogno di alloggi ad affitto calmierato. Credo però che nei quartieri andrebbe stimolata anche una cultura diversa dell’abitare. Quella che si è sviluppata qui per lunghissimo tempo – ora non so più com’è – potrebbe essere molto interessante e offrire, anche ora, spunti di riflessione significativi.  Nel mio ricordo, in questo borgo la gente non ha mai chiuso a chiave la porta; era sempre tutto aperto, con un andirivieni da un appartamento all’altro. Credo che per le vecchie socie inquiline sia ancora così; c’è un travaso continuo, si scambiano cose. C’è un modo di abitare, di rapportarsi agli altri che è del tutto differente.

– Era una modalità di vivere coltivata o spontanea?

Credo sia stato un dato culturale che si era sedimentato in questo luogo per la tipologia dei suoi abitanti, che è poi passata ai suoi discendenti. I primi soci aderivano consapevolmente alle idee prampoliniane di riscatto sociale. La gente che è cresciuta in questo borgo ha fatto come da solido basamento anche per tutto il periodo del Fascismo e della Resistenza. In molti qui hanno partecipato alla lotta di Liberazione. Quei giovani, che, negli Anni 70 e 80 prendevano parte ai vari eventi di via Candelù e via Selo, si sono nutriti di quelle storie, di quell’energia di riscatto, di cultura e libertà. Qui si respirava un’aria particolare.

– È attuale oggi parlare di Case cooperative a proprietà indivisa, in una realtà in cui ci sono istituti pubblici per le case popolari?

Credo che, se non necessario, è quantomeno auspicabile che ci siano organizzazioni che si autosostengono, che imparino ad autosostenersi, che non siano sempre alle dipendenze o alla ricerca dell’appoggio dell’istituzione. È un’autodeterminazione che va coltivata. Qui le case sono quello che sono, però, perché non mettere a disposizione questi alloggi anche agli studenti? E che dire del Cohousing che sta venendo avanti, ovvero di un modo di abitare collaborativo, in cui non si condividono solo dei metri quadrati? Noi qui, a suo tempo, abbiamo ospitato nelle nostre case persone che fuggivano dal terremoto del Friuli, perché non sapevano dove andare. Sono rimaste quasi un anno. Nella realtà attuale dovrebbero maturare processi nuovi. Anche la questione degli immigrati potrebbe, in parte, trovare soluzioni in questo modo.

– Parlavi di sollecitare modi diversi di abitare anche in altre aree della città. Quale dovrebbe essere il principio fondamentale con cui muoversi?

Tutto deve partire dalla solidarietà verso i tuoi simili.

– Pure questo borgo è stato toccato dalla necessità di ritirarsi, ciascuno dentro le proprie mura. Si può fare qualcosa per invertire questa tendenza dominante?

Quello che ho visto è che, quando ci siamo avvicinati al Centenario della Cooperativa nel 2008/9, una gran parte del merito della valorizzazione dei principi che ci hanno guidato va ai giovani come Roberta Pavarini, oggi presidente, agli architetti che lavorano per la Cooperativa e ai loro amici. Hanno promosso idee, fra cui la realizzazione dei murales. Un’iniziativa quest’ultima che poteva anche essere dirompente per gli abitanti. Invece è stata accolta bene. Sono contenti di vedere le facciate delle case dipinte che fanno anche arrivare gente per osservarle. Inoltre, questo gruppo di giovani ha progettato un cippo commemorativo, il sito web, la saletta multimediale. Piccole cose magari, che però prima non c’erano e che hanno meglio cementato le relazioni fra queste famiglie, che si sono così sentite valorizzate. Se qui abitassero molti giovani e anche tante giovani coppie, potrebbero creare nuovi inizi. In questo luogo hanno abitato anche personalità che hanno fatto la storia, non solo del borgo, ma di Reggio. Ora non ci sono più, ma erano anche figlie del loro tempo. In ogni realtà nuova, occorre linfa nuova. E ci deve essere chi è disposto a darla e chi ad accoglierla.  La storia di questo posto lo ha dimostrato: ci vuole sempre una scintilla che scocca. Solo i giovani possono innescare la miccia ed essere perfetti detonatori.