Come essere felici
tra il Kenya e via Selo
Racconto di Monica Cozza – Settembre 2020
“Vada fino in fondo a via Selo, sulla destra c’è l’ultima casa con un’aiuola di terra davanti e forse un gatto, io abito lì”, mi aveva detto Monica Cozza per darmi appuntamento a casa sua. Ho trovato la casa con l’aiuola e un gatto che rapido, prima che la porta d’ingresso si chiudesse, mi si è infilato dietro ed è corso su dalle scale. Ho poi saputo che era Musghin, adottato da lei al suo arrivo in via Selo, il primo marzo 2018. Musghin era stato battezzato così dagli abitanti del borgo per via di quei gentili morsi che dava per dimostrare la sua affettuosità; infatti circolava da qualche tempo lì intorno, come se aspettasse proprio lei.
Nell’appartamento di Monica, il gatto risulta poi essere solo un preludio, poiché altri animali mi attendono, come l’elefante, il rinoceronte, la zebra. Il caldo umido dell’estate reggiana, che ovatta il cielo, per la durata dell’incontro lascia il posto a un sole dardeggiante, a cieli azzurri che illuminano terre rosse e prati verdi e bouganville di ogni colore; firmamenti che poi la sera si accendono con stelle così grandi, luminose, pulsanti e vicine, che puoi come prenderle con le mani.
In Monica convivono paesaggi diversi e incontri differenti; spazi infiniti e il suo lavoro da cassiera alla Coop; svariati approcci culturali e il suo abbracciare la filosofia dell’abitare cooperativo.
Una ricca vita raccontata in una mattina d’estate.
Sono nata a Reggio e ho avuto un’infanzia intensa, poiché sono figlia di un poliziotto calabrese di Cosenza e di una madre infermiera al Santa Maria Nuova e di origine pugliese, di Taranto. I miei genitori, Domenico e Luisa, erano piuttosto anaffettivi, non ci hanno infatti mai abbracciato e baciato, ma forse era anche un tratto della loro generazione. Avevano sempre da battibeccare fra loro, per via dei turni di notte che, oltre mio padre, anche mia madre doveva fare; ma lei non voleva rinunciare al suo lavoro. Era una battagliera, lo è anche adesso che ha più di 80 anni.
A noi figli, due femmine e un maschio, mio padre ha impartito un’educazione militaresca. Le musiche da caserma segnavano il nostro alzarci e l’andare a dormire, come se avessimo dovuto presentarci a un’adunata. Dovevamo essere rigorosi e rispondere ai suoi comandi. La mia infanzia è stata però illuminata dalla bellezza dei giochi in cortile con gli amici. Abitavamo nel quartiere Peep, proprio di fronte alla scuola “Dalla Chiesa”, tra via Vasco da Gama e via Rivoluzione d’ottobre. Ho visto costruire quella zona. Negli Anni 60, quando sono nata io, era infatti ancora tutta campagna; ricordo che c’erano tanti alberi di cagnetti, dove noi ci inerpicavamo. Ho avuto una bellissima infanzia.
Poi la scuola. Mi sono diplomata all’Istituto tecnico femminile “Città del Tricolore” e ho trovato subito da lavorare. Negli Anni 80 era facile, il lavoro era come se ti aspettasse e potevi cambiarlo dalla sera alla mattina, se lo volevi tu, perché i contratti erano a tempo indeterminato.
Ho iniziato come cassiera al Self service della Cooperativa reggiana ristorazione (ora Cir), ma ho fatto anche la dirigente di comunità e lavorato per la cooperativa sociale Coopselios. La mia attuale attività è un part time come cassiera alla Coop.
Ho avuto un padre fascista, perché mio papà – come la maggior parte degli appartenenti alle forze dell’ordine nati nel Ventennio – lo era, al sud succedeva ancora di più. Quindi in me si è radicata l’idea opposta al fascismo. Sono convintamente di sinistra, non quella che vuole omologare perché siamo tutti uguali, ma quella che, pur abbracciando le diversità, lavora per una vita con possibilità di uguaglianza e di scelte per tutti.
Un padre padrone che ha ottenuto l’effetto contrario, grazie anche alla presenza di una madre combattiva. Così, qualsiasi uomo abbia tentato di mettermi i piedi in testa, non ha avuto successo. Per me l’uguaglianza nella coppia è fondamentale, lavoriamo in due, allora anche in casa facciamo insieme ciò che è necessario.
Sono voluta uscire presto dalla famiglia d’origine; a 19 anni sono andata a convivere con colui che avrei poi sposato nel 1988. Nel ’91 nascerà Giulia. Tre anni dopo però mio marito morirà per un infarto.
Più avanti ho iniziato a frequentare un ragazzo, padre di due figli piccoli, che aveva terminato da poco la sua relazione. Dopo alcuni mesi sono rimasta incinta. Abbiamo provato a vivere insieme, ma non ha funzionato. Così ho allevato anche Francesco, che è nato nel ’96, da sola.
Lavorare a un tempo super pieno e avere due bambini piccoli da crescere è stata un’impresa. Così ho dovuto ripescare un po’ del rigore di mio padre. La mia amica Daniela Giaroni mi chiamava Rottenmeier, come la ferrea governante nel romanzo “Heidi”. Infatti ho sempre molto contenuto i miei figli: sveglia per tempo, colazione, scuola, sport anche competitivo, compiti, a letto al massimo alle 21.30. La cosa ha funzionato fino alla terza media, poi non ce l’ho più fatta.
Sono due ragazzi meravigliosi. Giulia – oltre che essere bellissima, assomiglia molto al padre – è davvero in gamba: vive a Rimini ed è manager production di un’azienda di marketing on line. Abbiamo un rapporto stupendo. Quando ci vediamo troviamo un sacco di che raccontarci, anche se ciascuna di noi ha cose che ama tenere per se, perché non siamo amiche, ma madre e figlia.
Francesco, all’età di 16 anni, è andato a vivere con suo padre – con il quale ho sempre mantenuto buoni rapporti – perché, in quel periodo, ero rimasta disoccupata. Però ci sentiamo e vediamo spesso. Ora lavora come magazziniere per Ups di Carpi. In questo momento è al mare con la fidanzata e, proprio ieri, mi ha mandato un video sulla loro bella vacanza.
Sono rimasta senza un compagno per molti anni, ma nel frattempo mi sono innamorata dell’Africa. Per me l’Africa è il Kenya con il suo Oceano indiano, il safari, la savana. La luce è meravigliosa e la gente è sorridente, adulti e bambini. Lì ci sono 42 tribù che convivono tra di loro serenamente con tradizioni e culture diverse.
Certo, c’è molta povertà. Durante il mio primo viaggio, avevo 38-39 anni, ho pianto per tutta la settimana. Perché un conto è vedere i bambini in televisione con il moccolo, le mosche, le pance gonfie per la malnutrizione, un conto è incontrarle; è proprio una cosa che ti prende allo stomaco e al cuore.
Dopo la sofferenza per quel grande impatto con la miseria, ho capito la mia fortuna. Infatti penso che se vieni al mondo nell’Africa subsahariana, in Svezia o in Italia, non è questione di merito, ma di fortuna. E mi dispiace che gli italiani parlino sempre male del loro Paese, io sono invece contenta di essere nata in Italia. Credo che in molti avrebbero bisogno di fare un viaggio in quell’Africa. L’ho visto con i miei figli quando li ho portati, Giulia con 18 anni e Francesco con 13.
Là mio figlio, cadendo, si è fatto male e abbiamo dovuto accompagnarlo in ospedale, così abbiamo visto il terribile stato di quella struttura. Francesco, che è sempre stato molto schizzinoso col cibo, che voleva mangiare solo pasta al pomodoro e il galbanino, ha poi allargato il suo menù senza protestare. Giulia non ha mai avuto problemi col cibo ma, da quel momento, ha smesso di volere a tutti i costi gli abiti firmati.
In Kenya costruiscono le capanne con lo sterco di mucca, oppure in legno, ma anche con la terra rossa argillosa, che però si disfa con la pioggia. Così, tra maggio e luglio, devono fare grandi manutenzioni. Edificano le capanne anche con la pietra. Si vedono donne per strada che le rompono per venderle. La copertura di quelle casupole è invece in lamiera.
Mi ha colpito anche la capitale, Nairobi, che possiede una delle favelas più popolose al mondo. Non ci sono entrata, perché è pericoloso e mette paura.
Però ho vissuto due mesi in uno di questi villaggi a Timboni, a 20 chilometri da Malindi, una delle città turistiche più belle. Avevo conosciuto un ragazzo del posto che mi piaceva. Vivevo nella capanna con la famiglia mussulmana, che mi ha accolto a braccia aperte. La lingua poteva essere un problema, ma riuscivamo a capirci con semplicità. Si cibavano della loro polenta bianca, accompagnata dalle economiche teste di pesce, oppure di zuppe ai fagioli. La frutta è invece proibitiva, se non possiedi un albero da cui coglierla.
Nel villaggio, i capi della famiglia sono i nonni, che spesso usano una pedagogia un po’ brutale. Quando devono essere richiamati all’ordine, i bambini vengono picchiati o si colpiscono sulle gambe con uno scudiscio. L’aspetto positivo è che tutto il villaggio educa, perché c’è un forte senso di appartenenza.
Alle donne succede spesso una situazione pesante: durante le loro numerose gravidanze, si ritrovano con un marito che si ubriaca con quel vino di cocco, dal sapore orribile, che è puro alcol, ma costa poco. Io l’ho sentito, è davvero terribile. Così sono le madri che devono poi provvedere da sole al mantenimento dei figli.
Per i bambini c’è il problema della scuola, che è costosa, anche quella pubblica, perché si deve pagare tutto il materiale e anche la mensa scolastica. Le famiglie, spesso con figli numerosi, non ce la fanno. Là uno stipendio medio si aggira fra gli 80 e 100 euro al mese. Così molti bambini non ricevono istruzione e mendicano nelle vie.
Una regola che ho capito subito, è che non bisogna cedere alle loro pressanti richieste per strada, quando ti dicono “mamma, mamma” stendendo la mano. Perché per i genitori sono una fonte di reddito e non cercano così soluzioni per mandarli a scuola.
La relazione con questo ragazzo kombo è poi finita presto. Le differenze culturali erano davvero tante e avevano un grande peso in una dinamica di coppia. Penso che abbiano un rilievo diverso se la relazione è di amicizia o di semplice rapporto umano. Comunque sono contenta di avere potuto esaudire il suo desiderio di venire in Italia. Ora lui vive a Milano e si occupa di sicurezza alla libreria Feltrinelli
In questo villaggio non avevano davvero niente. I bambini vivevano e vivono in mezzo alla polvere, sulla terra, costruendo i giochi con quello che trovano per strada, come ciabatte di gomma rotte. Con i vecchi pneumatici fanno le altalene, e poi inventano delle macchinine bellissime con del filo di ferro e allestiscono piste con i legnetti dei rami secchi di un albero. Riescono comunque a fare dei giochi strutturati con del materiale da riciclo, cosa che da noi non esiste più. Perché qui i bambini hanno tutto, di più, troppo. Ho fatto anche l’educatrice per Coopselios, quindi so come sono i bimbi adesso. Là invece creano la loro quotidianità nel nulla. E li ho visti felici.
Ho capito che qui cerchiamo la felicità tramite le cose; credo che invece si manifesti attraverso uno stato dell’essere.
Mi sono sempre ritenuta una persona di larghe vedute, a cui sono costantemente interessate le qualità delle persone sopra ogni cosa, indipendentemente dal genere, colore della pelle o religione. Eppure l’Africa mi ha educato a essere più tollerante.
È una terra magnetica per me, che esercita un forte richiamo interiore. Credo di avere insomma quello che viene definito “Mal d’Africa”.
Fin dalla prima volta in cui ci ho messo piede, ho sentito di appartenere a quella terra, come se fossi nata lì. Del resto si dice che il Corno d’Africa sia la culla dell’umanità intera. Il reperto umano più antico, che hanno chiamato Lucy, è stato proprio scoperto nella Rift Valley.
Non è immaginazione, ma quando mi trovo là, sono a contatto con qualcosa di primordiale dentro di me; così saltano le mie sovrastrutture mentali e vivo in uno stato d’animo di pace assoluta.
Certo, ci vado in ferie e così è più facile, ma è comunque diverso da quando mi reco in vacanza in Brasile, in Sicilia o in Val d’Aosta.
Credo perciò che l’Africa sia una maniera di essere che ognuno vive, a modo suo, sulla propria pelle. Là per me il tempo diventa relativo, faccio quello che vivo minuto per minuto, non pianifico niente, l’azione nasce da un movimento interno.
Dopo tutti gli anni in cui ho programmato e controllato figli e ogni cosa, questo lasciare andare diventa incredibile e benefico per me.
Se all’inizio dei miei viaggi c’era il dolore per toccare con mano ciò che faceva stringere il cuore, poi quella situazione è stata superata da qualcosa di più grandioso, più bello e più forte che mi collega all’Africa. In Kenya sei sotto l’Equatore e la luce che lì vibra è sicuramente quella del ‘Paradiso’. Mi rimanda quasi a un’esperienza adolescenziale, di cui non ho parlato con nessuno per moltissimi anni, per paura di essere ritenuta pazza.
Quando avevo 14 anni, sono stata operata alla schiena, a causa di un’importante scogliosi che non era migliorata abbastanza, nemmeno con la ginnastica correttiva e il nuoto. L’intervento è durato sette ore, durante le quali ho avuto due arresti cardiaci, di cui uno in cui sono intervenuti con il defibrillatore. Ricordo le voci dei dottori Fontanesi e Giancecchi che mi chiamavano: “Non andare, non andare, Monica resta qua, resta qua!” Ho avuto, insomma, quella che viene definita un’esperienza di pre-morte.
Ricordo questo bagliore persistente, proprio un bagliore, una luce magnetica che era un’attrazione, tutto il tuo essere voleva andare verso di lei. Non sentivo alcuna voce in questa atmosfera luminosa, solo quelle dei medici che, come da lontano, mi dicevano anche: “Muovi le gambe, muovi le gambe!”. Quella luce era un richiamo così forte che mi ha lasciato la convinzione che ci sia qualcosa nell’aldilà, dopo la morte.
Quella sensazione l’ho ripescata dopo tanto tempo, forse è stata proprio l’Africa a riportarmela. Dopo l’operazione, ho invece vissuto la tristezza. Prima dell’intervento ero una ragazzina felice e spensierata, dopo ho dovuto passare tantissime ore da sola. Ho perso un anno di scuola e con essa delle amicizie. Poi per un altro anno portando il busto, che limitava molto i miei movimenti e mi faceva sentire “fuori giro”. Infatti quella era un’età in cui si voleva sempre stare con gli amici a chiacchierare, ridere e scherzare sulle panchine del parco, giocando a pallavolo, facendo la “vasca” in via Emilia il sabato pomeriggio, tutti in combriccola. I miei amici hanno smesso, piano piano, anche di venirmi a trovare. Allora non c’erano nemmeno i messaggini da fare su WhatsApp. Così mi sono ritrovata a vivere, fino a 15 anni compresi, senza i miei coetanei.
Ho conosciuto Mario in Africa cinque anni fa. Lui vive a Zurigo e lavora alla Fifa, la Federazione internazionale di football, in una sede che sembra la Casa Bianca. Ci sono coincidenze straordinarie nelle nostre vite, come il nome del padre; anche il suo si chiama Domenico e pure lui proviene dalla Calabria e proprio dalla provincia di Cosenza. Ci vediamo solo durante il fine settimana però, finalmente, vivo una relazione paritaria, pacifica. Poi c’è questo grande amore per l’Africa che condividiamo, lui la frequenta da 25 anni. E sentiamo sempre la voglia di tornarci. Recentemente abbiamo fatto un viaggio meraviglioso nel nord del Kenya, dove abbiamo visitato due laghi. Poi a Nairobi siamo stati nella nursery dove vengono raccolti i cuccioli di elefanti che rimangono orfani. Perché ancora ci sono bracconieri che ammazzano gli adulti per vendere le zanne a ben 15.000 dollari al chilo. Vedere questi elefanti che bevono il latte con il biberon è stato meraviglioso.
Questo “orfanatrofio”, lo Sheldrick wildlife, è un posto bellissimo, perché è nella savana, ma gli animali crescono anche a contatto con gli umani, così si avvicinano senza problemi.
È un centro che si propone, non solo di salvare i piccoli elefanti, che sono i più numerosi, perché i più colpiti dal bracconaggio, ma tutti i cuccioli orfani della fauna selvatica. Lì, un rinoceronte che si chiama Barakà, che vuol dire “Vivere in pace” nella lingua locale, ha preso una manciata d’erba dalle mie mani!
Mario ed io siamo praticamente coetanei, per cui stiamo progettando, appena andremo in pensione, di vivere insieme; ma di non stare fermi, perché abbiamo ancora tanto da vedere e da conoscere in Kenya. Ci potremmo passare vari mesi all’anno, svernare là insomma. Non ci vivrei però, perché non mi sento sicura delle risposte sanitarie che il Paese può offrire; oltre tutto, invecchiando si diventa più fragili.
Potremmo eleggere, come nostra sede in Kenya, Watamu che è sul mare, ma non caotica come Malindi. Watamu, con le sue spiagge di sabbia bianca e i giardini di corallo, in lingua swahili vuol dire “posto dolce”. Anche ora, quando andiamo in quel luogo, affittiamo un appartamento che ha un piccolo giardino con bouganville meravigliose e altri fiori stupendi che crescono esuberanti su una terra rossa e un verde vivo, mentre sopra il cielo è più azzurro che mai.
Sono nata e cresciuta a Reggio Emilia, quindi credo nella cooperazione. E sono 35 anni che lavoro nel mondo cooperativo. Ora però è diventato soprattutto business e questo mi dispiace molto. Certo, immagino che sia stato anche necessario per sopravvivere in una società dal mercato azzannante. Mi dispiace però non ritrovare più quello spirito di collaborazione, mutualità, senso di appartenenza e incontro con culture diverse che lo caratterizzava.
In queste Case cooperative dove abito ora, proprio all’inizio ho avuto un’esperienza che mi ha fatto sentire l’odore di quel cooperativismo dell’origine. Era lunedì e il mio compagno se n’era andato e sarebbe tornato solo il venerdì. Vado al garage per prendere l’auto, ma la porta basculante non si apre più di tanto e lì rimane bloccata, incastrata con il portello del baule della macchina che si era alzato. Io provo e riprovo senza risultato e mi sento disperata. Allora sono andata a suonare da Torelli, due case più in là. Lui, più che ottantenne, insieme a Tirelli, un settantenne, sono rimasti dalle 9 di sera a mezzanotte per cercare di aprirmi il garage. E non hanno voluto un soldo.
Questo è lo spirito cooperativo che si può ritrovare fra queste case. È anche vero che non tutti gli abitanti sono così. Comunque mi capita di fermarmi a scambiare due chiacchiere con persone che incontro, qui c’è come un senso di vita da piccolo villaggio. La mia vicina di sopra si occupa di Musghin quando vado via: le lascio le chiavi di casa, così lei lo fa salire, scendere e gli dà da mangiare.
A me però piacerebbe vedere, anche le persone che abitano qui, più felici. Ci sono invece molti anziani che si lamentano per la vivacità dei bambini, per esempio, e altri che non si interessano minimamente dei vecchi. A me attira sentire i bimbi che giocano e fanno casino, così come incontrare gli anziani con la loro storia da raccontare. Sono anche contenta di vedere che qui sono rappresentate altre culture. Mi piace tutto questo, poiché sono un segno di vita che si manifesta, di quell’esistenza ampia e multiforme che attraversa ciascuno di noi.
Lunedì, martedì e venerdì
09:30 alle 13:30
Mercoledì e giovedì
15:00 alle 19:00
via Candelù, 3
Iscrizione all'Albo delle Cooperative n° A116594